"Uccidiamo per indifferenza, a volte per amore, ma mai per odio."
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Il mattino volse portando con sè un sapore amaro, un'aria fredda, crudele. Un sentore di autentico disagio lo pervase, pizzicandogli il respiro, mentre si svegliava, stropicciava gli occhi e metteva a fuoco i contorni della stanza. Si sollevò a sedere, appoggiò la schiena contro la nuda, dura pietra dell'antico mastio e rimase in ascolto. Fuori, il giorno, mordeva timidamente la sagoma scura del castello, piccoli fasci di luce orizzontale convergevano su strisce di terra morbide e dai campi coltivati, macchiati di rugiada, si levava l'eco sussurrante d'un familiare ronzio. Una civetta sul ramo di un albero cadente cantò il suo verso tetro e le fu risposto da un'altra in lontananza. A Runestone c'erano sempre molte cose da fare, al mattino presto, quando i sensi di un uomo erano freschi e non sottomessi alla noia o alla stanchezza, e sicchè molti di quei compiti richiedevano la sua attenzione, Brandon aveva conservato l'abitudine di alzarsi presto. E quando la mole di lavoro non era eccessiva, o ritrovava nell'animo la vecchia scintilla che accendeva i suoi più sciocchi istinti, risaliva in fretta le scale del vecchio torrione di guardia e restava in cima, sulla base circolare della torre che sovrastava la grossa scogliera lambita dai freddi flutti del mare del nord, la cui schiuma s'infrangeva con violenza, sollevandosi come la volontà di un Dio impotente. In ogni carica dirompente, davanti ad ogni sferzata cristallina, immaginava che si componesse un disegno a cui la sua fantasia dava un senso. Solo, sull'alto bastione, come la guardia d'un invisibile e inconsistente male, aveva assistito alle più feroci battaglie, i viaggi più eroici, le più solenni promesse trasportate dal vento. Ma, talvolta, le immagini gli si presentavano con troppa forza; lo investivano di riflesso, trascinandolo in un vuoto di dolore a cui non sapeva dar forma, né significato. Non riusciva a capire: nessuno conosceva la storia di quei mari meglio di lui, eppure, non poteva comprendere se stesso. "Un uomo coraggioso riesce a pensare. Un vigliacco no." Lord Yohn Royce gli aveva offerto il primo indizio, ma la strada bruciacchiata che portava alla consapevolezza sembrava tortuosa e irta di pericoli.
Nella lunga traversata, il tempo per riflettere sulla sua situazione non gli era mancato. Sebbene ci fosse stato un periodo della sua vita animato dal desiderio di scoperta e da ben più incontrallibili sfuariate ribelli, le sue magre circostanze l'avevano condotto a ricredersi sulle sue reali probabilità di successo. Risalire quelle terre era come compiere un viaggio indietro nel tempo, ai primordi del mondo, quando la vegetazione spadroneggiava sulla terra e i grandi alberi erano sovrani. Un corso d'acqua vuoto, un silenzio assoluto, poi una foresta impenetrabile; accogliendolo, le diaboliche caratteristiche della natura gli offrivano quest'impressione e, non senza suscitare dubbi e destare fremiti, sollevavano in lui più interrogativi di quanti non gliene frullassero già nel cervello. Valgrigia, invece, gli era familiare, o col tempo lo era diventato. Con la sua verde dorsale, lo invitava ad entrare, lo invitava a restare, ma le melodie che sussurrava al suo petto avevano lo stesso sapore di un ricordo dolce e melanconico, un punto distinto di un tempo lontano, perso per sempre. "Sei già stato qui. Sì che ci sei stato. Sicuro. Io non dimentico mai una faccia. Vieni, vieni, qua la mano! Ti dirò, guarda, ti ho riconosciuto da come camminavi prima ancora di vederti in faccia. Non avresti potuto scegliere un giorno migliore per tornare."
Qualcuno, nel cortile interno del castello, cominciò a muoversi. Udì distintamente un suono grezzo, grave, il battere di un ferro che si espandeva nell'aria in una ritmica comprensibile. Il fabbro doveva essere a lavoro. Raggiunse il bordo del letto e arcuò la schiena in avanti per distendere i muscoli del corpo. Si guardò le dita affusolate delle mani. Sui palmi erano comparsi da tempo i segni dei primi calli che tendevano la pelle dando l'impressione che stesse per strapparsi. Trovò ironia in quell'immagine, nel dualismo che si scontrava col suo aspetto. Pensò a come appariva, e a come gli altri si sarebbero aspettati che lui apparisse. Quando ebbe il presentimento che la prima condizione non rispettasse la seconda, provò come un fremito lungo le braccia, ma si rimproverò di quell'improvviso compiacimento. Era nel suo interesse non deludere le aspettative, lo era davvero, ma immergersi improvvisamente nella realtà che aveva fin'ora evitato faceva nascere in lui la volontà di reagire con disappunto, sufficienza, forse persino astio. Non poteva credere che, per alcuni, l'apparenza fosse più importante di tutto il resto. I loro portamenti, che erano semplicemente quelli di individui che se ne andavano per le loro faccende in una tranquilla fiducia quanto alla propria sicurezza personale, lo offendevano come le oltraggiose vanterie della follia in faccia ad un pericolo che essa è incapace di comprendere. Non aveva nessun preciso desiderio di illuminarli, ma aveva qualche difficoltà a trattenersi dal rider nelle facce loro tanto piene di stupida importanza. A dire il vero, non stava troppo bene in quel torno di tempo.
Quando giunse il paggio, Bran aveva già riacquistato consapevolezza; lo osservò a fondo, in qualche modo pensò di scorgervi un certo curioso riflesso. Doveva avere circa la sua età, quando lasciò il castello. Raccolse il messaggio e lo lesse. Sorrise come facciamo tutti quando veniamo colti di sorpresa dalla felicità. Con la mente piena di vaghe impressioni che tratteggiavano gli scenari più improbabili, la linea obliqua sulle labbra perse mordente, si fece piccola, fino a ritirarsi, sempre più, in una sconsolata piega che le deformava in un cruccio cupo. Pensò a Waymar Royce. Waymar, il terzogenito di Lord Royce, aveva prestato giuramento come confratello dei Guardiani della Notte, alla Barriera - un luogo che Bran immaginava come una distesa immota di ghiaccio e neve a cielo aperto e nulla più - e solo pochi mesi prima della sua partenza per Grey Glen, era giunto un corvo a Pietra di Runa. Ali oscure, oscuri presagi, si diceva. Nulla di più vero. Waymar era morto e il suo corpo non era stato ritrovato. Nemmeno un cadavere su cui poter piangere o lanciare le proprie maledizioni. Ricordava il clima di tepido sconforto che per alcuni giorni appestò l'aria, con le note confuse e lamentose dei gabbiani che sfrecciavano oltre il promontorio. Se Casa Tollett osservava il lutto per Jon Arryn nella stessa maniera - Bran non osava chiedersi se fosse vero oppure no - non si sarebbe arrischiato di inimicarsi il suo nobile padre il primo giorno dal suo arrivo. Istruì il paggio affinché questo riferisse a sua sorella che l'avrebbe raggiunta nella Sala Grande, e lo congedò.
Aveva ancora un po' di tempo prima di lasciare le sue stanze. Si dedicò ad una veloce preghiera. Pregò il Padre. Gli chiese di infondere in lui il giudizio che gli sarebbe servito per affrontare i prossimi giorni. Era una cosa che, senza realmente volerlo davvero, si trovava spesso a fare quando tornava nelle terre di famiglia. Era giusto che la devozione di un uomo fosse sincera ma Bran, talvolta, temeva che le sue pie abitudini fossero solo il misero tentativo di riscattarsi per un perverso crimine che aveva già commesso. Su un cassone basso, su di un lato della stanza, c'era una ciotola di modeste dimensioni contenente dell'acqua tiepida. Si avvicinò, vi immerse le mani e se le passò sul viso. In un angolo, gettata alla buona e meglio, figurava una bisaccia vecchia, che uno dei garzoni della stalla aveva lasciato lì sotto sua richiesta. Non aveva portato molto con sè, ma Lord Yohn Royce gli aveva concesso di vestire le effigi del proprio casato. Aveva provato un certo orgoglio ma ora, mentre scartava la tunica recante sul petto le cuciture di quei segni manifesti, sporca di terra e polvere, si sentiva colpevole come un criminale. Si rivestì da solo, indossò dei vestiti puliti, frugò con la mano nella bisaccia ed estrasse un piccolo sacchetto di pelle che nascose in un taschino interno della giubba foderata, e uscì.
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